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giovedì 30 marzo 2017

Fake news, disinformazione, cattivo giornalismo. Imparare a informarsi sin da piccoli

Progetti formativi nelle scuole per dare agli studenti le chiavi per informarsi in maniera critica e sapersi orientare in un ecosistema informativo sempre più complesso e articolato. È quanto stanno sperimentando alcuni progetti pilota in diversi paesi per “fare formazione alle informazioni”, come scrive Delphine Rocaute su Le Monde, e dare degli strumenti per saper individuare le false informazioni. È utile comunque specificare che le fake news non sono un fenomeno nato oggi né sono un trabocchetto inventato con i social media. Nelle epoche passate le abbiamo classificate sotto la voce “propaganda”, spiega Rouala Khalaf sul Financial Times. Con l’era digitale si è ampliato il raggio della loro diffusione: possono raggiungerci con molta facilità fin dentro casa nostra e intrufolarsi nella nostra vita quotidiana, contribuendo a generare confusione sui fatti e sulle idee che ci facciamo su quanto accade intorno a noi. Si tratta di una questione complessa che va oltre la natura delle notizie (vere o false) e chiama in causa la qualità del giornalismo (online e offline) e l’intero ecosistema informativo. Al riguardo, in un recente articolo su First Draft, Claire Wardle ha evidenziato sette modi di fare disinformazione per arrivare a conoscere la grammatica delle fake news, avere gli strumenti per poter interpretare quel che leggiamo e osserviamo e conoscere meglio come i contenuti vengono disseminati (e con quali motivazioni) in un ambiente informativo sempre più complesso. Leggi anche >> Facile dire fake news. Guida alla disinformazione Le fake news pongono una sfida educativa su come informarsi con consapevolezza, acquisire coscienza del fatto che ognuno è a propria volta un media e maturare un approccio critico alle informazioni. Come ha dichiarato di recente, Thomas Boll, docente della scuola di giornalismo Newhouse alla Syracuse University, «l’alfabetizzazione ai media dovrebbe diventare parte integrante dei corsi di educazione civica, che ogni cittadino dovrebbe essere chiamato a frequentare. L’obiettivo di questi progetti dovrebbe essere fare della mente e del cervello uno strumento di verifica dei fatti». A tal proposito sta iniziando la sperimentazione di corsi di educazione al digitale che cercano di rendere familiari alcuni strumenti per poter riconoscere le fake news e, aggiunge Khalaf, saper distinguere tra giornalismo responsabile e notizie artefatte. Leggi anche >> Perché dobbiamo insegnare ai bambini come stare online «Saper riconoscere un’informazione vera da una falsa è una competenza fondamentale, oggi», ha dichiarato al Telegraph il direttore dell’area educazione e competenze dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (Ocse), Andreas Schleicher. Chiunque utilizzi i social media o i siti di notizie, ha aggiunto Schleicher, deve essere in grado di valutare, verificare e riflettere sulle informazioni che vengono date. E le scuole sono il luogo dove poter discutere punti di vista e opinioni differenti. Per questo, l’Ocse ha annunciato l’introduzione di una nuova categoria analitica per i suoi test denominata “competenze globali”, che valuterà come gli studenti approcciano criticamente le informazioni disseminate sui social media e se sono in grado di rilevare affermazioni dubbie. I nuovi test, che partiranno nel 2018 e i cui risultati saranno pubblicati nel 2019, riguarderanno i ragazzi entro i 15 anni di 70 paesi. Il progetto di Le Monde in Francia In Francia, Le Monde ha ideato un kit informativo da presentare nelle scuole per rafforzare la consapevolezza del proprio stare in rete e della provenienza delle informazioni. Come, ad esempio, quando un contenuto satirico, decontestualizzato, viene trattato come una notizia, oppure per le informazioni provenienti da siti di parte. Il progetto si rivolge agli studenti delle scuole superiori con interventi in aula e l’utilizzo di contenuti didattici on line sul sito. Un gruppo di giornalisti del quotidiano francese fino alla fine dell’anno scolastico 2016-2017 andrà nelle scuole che ne faranno richiesta per aiutare i docenti nel fare formazione e per spiegare il mestiere di giornalista, in vista di un progetto educativo più ambizioso e strutturato da proporre a partire da settembre 2017. L’obiettivo, racconta Akexandre Pouchard, uno dei responsabili del progetto, è stimolare all’informazione soggetti, come gli studenti, che al tempo stesso “sono tra i più vulnerabili e permeabili alla diffusione delle fake news e non costituiscono i nostri lettori abituali. Si tratta dunque di figure con le quali entrare in contatto e da imparare a conoscere”. La guida preparata da Le Monde è uno strumento per aiutare a verificare le informazioni e individuare manipolazioni di notizie e casi di disinformazione. È un documento – spiegano gli autori – che raccoglie al suo interno illustrazioni, consigli utili, esempi pratici ed esercitazioni, da utilizzare come guida per navigare e cercare informazioni su internet o come base per ogni docente che voglia investire in educazione ai media in classe.
l kit per i docenti fa parte di un progetto più ampio, chiamato Decodex, lanciato nel mese di febbraio (e che ha ricevuto anche alcune critiche sulla sua efficacia), che si propone di verificare le false informazioni in rete, attraverso un motore di ricerca dove inserire l’indirizzo di un sito per controllarne l’attendibilità, un’estensione su Chrome e Firefox, che dice in tempo reale se il sito è affidabile o meno, e un bot che risponde sul messenger di Facebook alle domande degli utenti. Decodex, si legge su Le Monde, è nato per rendere più veloce e facile la verifica delle informazioni e alleviare quella sensazione di “svuotare l’oceano con un cucchiaino” quando “artigianalmente, a mano, si individuano e verificano quelle notizie su cui si ritiene di dover fare luce”. In particolare, l’obiettivo è quello di dare qualche punto di riferimento nei casi di contenuti ingannatori, quando cioè il contenuto viene spacciato come proveniente da fonti realmente esistenti e invece sono false. “Ci è sembrato necessario – proseguono gli autori – indicizzare i maggiori siti, i blog, le pagine di Facebook, gli account Twitter e i canali di YouTube, per certificare a un nostro lettore che se, ad esempio, sta navigando sul sito lemonde.fr, è su un sito fasullo che sta utilizzando il nostro nome. Si tratta di un processo lungo e che necessita di collaborazione, anche grazie alle sollecitazioni e ai dubbi dei lettori”. Le “lezioni” del New York Times in America Da alcuni anni il New York Times dedica molti articoli a esercitazioni e lezioni di media literacy rivolti a studenti, docenti e lettori a partire da contenuti pubblicati sul quotidiano statunitense stesso. Già nell’ottobre 2015, ben prima che l’Oxford Dictionary definisse “post-truth” parola dell’anno per il 2016, Katherine Schulten aveva pubblicato un piano di lezioni dal titolo Fake News vs. Real News. Determinare l’affidabilità delle fonti mostrando strumenti e strategie per distinguere le informazioni false da quelle vere. In un nuovo articolo dello scorso gennaio, Schulten ha presentato nuovi strumenti didattici – distinti in due sezionI: problemi e soluzioni possibili – rivolti ai docenti “per aiutare i loro studenti a muoversi in un paesaggio inospitale”. A cosa ci riferiamo quando parliamo di fake news, come individuare le diverse tipologie di informazioni non attendibili, come mappare la diffusione e l’espansione delle informazioni false, quali sono gli effetti della loro viralità. La prima parte dell’articolo è dedicato a definire i problemi che le fake news pongono e presenta alcune esercitazioni per far sì che gli studenti possano confrontarsi criticamente e capire dove e cosa andare a cercare per poter verificare le informazioni che circolano in rete. La seconda parte, invece, punta ad alcune possibili soluzioni. Come fare a sapere se quel che si legge on line è vero? La soluzione, scrive Schulten, è porre le “domande giuste” ai contenuti o siti che consultiamo. Prima di condividere qualcosa dovremmo chiederci: chi ha scritto la storia che stiamo per condividere? Come, perché e quando è stata scritta? Cosa manca? A cosa mi porta questa storia? Dovremmo quindi accertarci che i contenuti siano attendibili, verificando le immagini o i video, controllando url, account, nome e data della pubblicazione, seguendo i link inseriti negli articoli e leggendo la sezione “chi siamo” dei siti sui quali finiamo. L’articolo poi suggerisce di consultare regolarmente siti che si occupano di fact-checking (come Factcheck.org, Snopes.com e Politifact.com) e di curare il proprio ecostistema informativo. Lo scorso dicembre, Buzzfeed ha ripercorso a ritroso i messaggi su Twitter dell’attuale presidente Donald Trump per ricostruire il suo “ecosistema mediatico”. La giornalista propone un esercizio simile per gli studenti. Si potrebbe chiedere loro di tenere traccia per 48 ore degli articoli di notizie che hanno letto, cliccato o condiviso, annotando la fonte di ognuno. Quindi si potrebbe utilizzare Wordle per creare una rappresentazione visiva delle fonti maggiormente utilizzate. A questo punto si potrebbe chiedere agli studenti di discutere in classe quali sono le loro principali fonti informative e verificare la loro attendibilità attraverso le cosiddette “domande giuste”. Infine, si potrebbe chiedere agli studenti di curare i loro account Facebook e Twitter per assicurarsi che in futuro ottengano notizie da fonti attendibili e riflettano da quanti punti di vista diversi acquisiscono le informazioni. I progetti in Italia Nicola Bruno è un giornalista, specializzato nel fact-checking, tra i fondatori di DataNinja e Factcheckers.it, un'associazione no profit (creata con Gabriela Jacomella e Fulvio Romanin) che si occupa di educazione al fact-checking, nata nel 2016 durante un incontro alla Global Fact, una conferenza internazionale promossa dall’International Fact-Checking Network at Poynter (IFCN) in cui si riuniscono le diverse organizzazioni internazionali specializzate sul tema (come ad esempio Full Fact in Inghilterra, PolitiFact negli Stati Uniti e Chequeado in Argentina). «Quando siamo nati, abbiamo deciso di sondare il contesto educativo, portandovi quindi il tema del fact-checking», racconta Bruno a Valigia Blu. Proprio per questo motivo, i soggetti a cui rivolgersi con questa iniziativa, continua il giornalista, sono stati da subito studenti, genitori e docenti: «il discorso dell’educazione va fatto sempre a questi tre livelli. Non si può pensare di coinvolgere solo gli studenti, quando poi i docenti non sono formati su questo tema, né tanto meno si può pensare di introdurre la cultura della verifica delle fonti, ecc, senza coinvolgere i genitori». Sono così nate alcune iniziative mirate a fornire gli strumenti utili per far nascere una cultura della verifica delle fonti nei contesti divulgativi, quindi scolastici e familiari, anche perché, «a livello culturale, su queste tematiche siamo nel momento peggiore, perché un sacco di gente è arrivata online, passando dal tg a facebook direttamente, e quindi senza avere una serie di strumenti di codifica, partendo dalla basi come che cos’è un url, un account, ecc», spiega Bruno.

Innanzitutto, tra i primi progetti c’è stato il contribuito a creare la giornata del prossimo 2 aprile sul fact-checking, International fact checking day, realizzando il pacchetto educativo sul sito. Si tratta di un kit utilizzabile esclusivamente dai docenti che contiene una lezione basica simulata di un’ora e mezzo: nella prima parte, vengono forniti agli studenti una serie di esempi di articoli in cui devono distinguere cosa è un fatto e cosa è un’opinione, «non in maniera manichea, ma quantomeno per porsi la questione»; nella seconda, poi, si passa a un esercizio pratico, «chiedendo ai ragazzi una ricerca per immagini di un articolo fake, trovando qual è la vera origine di quell’immagine o foto». Infine, viene mostrato un video animato che spiega la differenza tra fatto e opinione e poi è previsto un momento di confronto tra il docente e gli studenti su quanto svolto in classe. Sempre in occasione della giornata del 2 aprile, Bruno poi ci racconta di un altro progetto (che sarà lanciato oggi, 29 marzo), in collaborazione con Sky Academy, cioè una struttura con veri studi televisivi messi a disposizione gratuitamente da Sky alle scuole per lo svolgimento di esperienze di apprendimento nel mondo giornalistico televisivo. Si tratta di un’iniziativa dedicata al tema specifico del fact-checking e delle fonti, indirizzata questa volta però non ai docenti, ma ai ragazzi di 15–18 anni, in cui sarà rilasciato un altro minikit digitale. «All’interno ci sono 10 contenuti informativi, non necessariamente fake news ma anche cose un po’ vere magari, tramite cui stimoliamo a riflettere. Ad esempio, c’è una foto di Paris Hilton con una maglietta con su scritto “Smettila di essere povero” e noi ti chiediamo “È vero?”. Giri questa card e c’è scritto “No, non è vero” e infatti se controlli vedi che Paris Hilton aveva detto in realtà “Smettila di essere disperato”. Ci sarà anche un’infografica in cui vengono elencate le 10 cose da controllare prima di condividere un contenuto online, come “Vedi se c’è la spunta blu sugli account che ne certificano l’ufficialità” o “Leggi bene l’url perché ilfattoquotdaino.it non è ilfattoquotidiano.it”».

Infine, i veri e propri corsi nelle scuole (che accetteranno la collaborazione) dovrebbero iniziare il prossimo anno scolastico. Il giornalista spiega che stanno sviluppando progetti e percorsi con altre persone con esperienze differenti rispetto al mondo del giornalismo come Stefano Moriggi, filosofo della scienza e ricercatore, e Paolo Ferri, professore ordinario di Didattica e pedagogia speciale, entrambi dell’università Bicocca di Milano, che lavorano da tempo sul sistema dell’educazione ai media (media education), sia dal punto di vista della ricerca scientifica che da quello pratico, con iniziative come “Genitori connessi” in cui vengono messi insieme genitori e figli per farli riflettere sui media e come utilizzarli in maniera consapevole. Stefano Moriggi, sentito da Valigia Blu, spiega così che l’obiettivo è di «fare quello che in Italia non ha ancora preso piede che non è tanto il fact-checking in quanto tale, ma progetti calibrati per scuole di diverso ordine di educational fact-checking, quindi facendo dei laboratori che diffondono e condividono delle pratiche di criticità per gradi e livelli». La metodologia utilizzata, spiega Bruno, sarà quella dei due ricercatori della Bicocca già sperimentata sul campo in questi anni nelle strutture scolastiche, come nel Veneto, Umbria, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Lazio e Campania «che prevede 5 blocchi, in cui c’è la parte frontale, teorica, ma anche la parte più pratica, con laboratori. Nel primo blocco, i ragazzi fanno un quiz che serve a valutare le loro conoscenze (tipo saper leggere l’url). Poi, c’è la parte più introduttiva, teorica e metodologica, in cui viene spiegato l’importanza del tema. La terza parte è più pratica con siti web da verificare. La quarte si punto a iniziative laboratoriali dove l’obiettivo non è più rispondere vero o falso, ma proprio ragionare e sviluppare un approccio critico nella lettura di un articolo. Infine il quinto passaggio, quello finale in cui ci si incontra e si discute su quello che si è appreso, per vedere i passi in avanti fatti». Moriggi inoltre precisa che fino a questo momento non ci sono stati rapporti sui loro progetti con il ministero dell’Istruzione: «sono nostri percorsi che conduciamo in maniera “artigianale” con le scuole che di volta in volta vogliono collaborare con noi». Proprio per capire quali sono le iniziative del Miur sul tema della media literacy e in particolare su analisi critica di media e rete a scuola, abbiamo contattato Damien Lanfrey, membro della segreteria tecnica del Ministero, e Donatella Solda, dirigente nell'ufficio di gabinetto del Miur. Solda spiega così che le linee di policy al riguardo si basano principalmente su due bandi in particolare, precisando comunque che quello della media literacy è un tema trasversale a molte delle azioni del ministero: «è evidentemente simbolico e importante avere degli investimenti, bandi, azioni dedicati esplicitamente a questa tematica, ma è anche importante sottolineare che è un approccio trasversale, che aumenta l'impatto e l'efficacia, se questi obiettivi sono realizzati e incoraggiati in tutti i bandi». Il primo bando di circa 80 milioni di euro a cui si fa riferimento, aggiunge Lanfrey, è all’interno del PON (cioè il Programma Operativo Nazionale del Miur), lanciato circa quindici giorni fa e che si divide in due obiettivi: “pensiero computazionale e creatività digitale” (40 milioni di euro) e “cittadinanza digitale” (40 milioni di euro). La prima direttiva si focalizza sul “promuovere gli elementi fondamentali per l’introduzione alle basi della programmazione, anche allo scopo di sviluppare le competenze collegate all’informatica”, mentre con la “cittadinanza digitale”, «(quella che voi chiamate media literacy) che avrà un impatto su circa 4mila/5mila scuole, cioè il il 60%/70% del totale, con l’impegno di renderlo strutturale», si punta tra le altre cose a educare prioritariamente alunni della scuola secondaria di primo e secondo grado “alla valutazione della qualità e della integrità delle informazioni, alla lettura, scrittura e collaborazione in ambienti digitali, alla comprensione e uso dei dati e introduzione all’open government, al monitoraggio civico e al data journalism”. «Ovviamente – spiega Lanfrey – la nostra chiave di lettura non è andare a definire i comportamenti, ma fornire ai ragazzi gli strumenti, le cosiddette strategie comportamentali, per arrivare a fare le cose giuste». Essendo comunque il PON un bando progettuale, bisogna specificare che saranno le scuole a dover presentare progetti e svilupparli, «anche se noi nell’allegato tecnico siamo stati abbastanza chiari nelle tematiche che dovranno ricevere particolare attenzione ed essere sviluppate». Per accompagnare comunque gli istituti scolastici in questi percorsi, il Miur sta immaginando direzioni informative su cui potersi basare e progettando azioni formative per i docenti «perché non possiamo lasciarli da soli», specifica Lanfrey. “Curricoli digitali” è invece il secondo bando (da 5 milioni di euro), lanciato qualche mese fa e inserito nell’ambito del Piano nazionale per la scuola digitale (PNSD), che insieme a quello presente all’interno del PON, definisce la parte più importante di un percorso educativo su media literacy portato avanti del ministero dell’Istruzione. L’obiettivo, si legge nell’avviso pubblico, è “la realizzazione, a favore delle istituzioni scolastiche ed educative statali, di curricoli, ossia formati e strumenti innovativi, per lo sviluppo di competenze digitali, che siano in grado di accompagnare le attività curricolari di apprendimento degli studenti sui temi del digitale e dell’innovazione attraverso percorsi didattici fortemente innovativi”. Le proposte progettuali dovranno inoltre seguire precise aree tematiche, come: diritti in internet, educazione ai media (e ai social) e all’informazione, big e open data ed educazione alla lettura e alla scrittura in ambienti digitali. Lanfrey sottolinea infine che il Ministero ha riscontrato però difficoltà a trovare dei partner per sviluppare questi progetti: «per dire le università ci sono, ma non hanno percorsi strutturati pronti. Abbiamo comunque cercato di mandare un segnale a tutti i possibili soggetti in gioco, anche al mondo giornalistico».


Fonte: Valigia Blu - Autore: Angelo Romano e Andrea Zitelli

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